Ultimo appuntamento del primo ciclo di serate organizzate con Slow Food Piacenza (ad ottobre si riparte) dedicato al Fiano di Avellino, con 8 vini – compreso il Metodo Classico di apertura – degustati al Poggiarello di Statto (Travo, Pc), in Val Trebbia.
La regione di riferimento del Fiano è senz’altro la Campania (circa 850 ettari coltivati), ma anche la Puglia mostra un certo interesse per il vitigno (che fino a qualche anno fa, peraltro, in questa regione veniva confuso con il Minutolo, in realtà uva del tutto diversa). In Campania sono diversi i territori in cui il Fiano dà ottimi risultati, anche se abbiamo scelto di concentrarci su una zona specifica, quella compresa nella denominazione Fiano di Avellino (DOCG dal 2003), in Irpinia, collocata tra le valli dei fiumi Calore e Sabato e che arriva fino alle pendici del monte Partenio.
Perché il Fiano? Perché tra i bianchi italiani può liberare un carattere complesso e longevo come pochi altri, grazie ad una buccia ricchissima di precursori aromatici che si sviluppano lentamente nel tempo e ad una acidità salata che innerva la struttura e, nei migliori esempi, resiste a lungo. Il Fiano è un fondista che necessita di tempo per carburare ed iniziare ad esprimersi al meglio.
Parlare di Fiano significa compiere un viaggio nella storia della viticoltura campana. Probabilmente già presente in epoca romana, viene citato per la prima volta in un testo del XIII secolo e a metà del ‘600 vengono proposti i primi tentativi di associare il vitigno ad un territorio specifico, l’attuale comune di Lapio, indicando sostanzialmente il primo Cru della zona.
Il periodo cha va dall’arrivo della fillossera alle prime due Guerre Mondiali è duro per tutti e il risveglio, dopo la fine della seconda Guerra, si rivela drammatico. Il Fiano è ridotto al lumicino, gli ettari coltivati in viticoltura specializzata si contano sulle dita di una mano. I contadini irpini però non mollano e, grazie alla Napoli bene, continuano a produrre piccole quantità di Fiano. Accade infatti che l’aristocrazia e la medio-alta borghesia napoletana trovino nel Fiano in versione dolce il vino della domenica, il vino della festa, e grazie a ciò il vitigno non si estingue.
Negli anni ’70-’80 Mastroberardino decide di investire su questa varietà facendo realizzare nuovi impianti ai suoi conferitori, cosa che anche Feudi di San Gregorio, dalla seconda metà degli anni ‘80, inizia a fare. Il rinnovato interesse commerciale fa schizzare in alto i prezzi ed il numero di ettari; il mercato tira fino alla crisi dei prezzi di metà anni ‘90 che convince alcuni storici conferitori a mettersi in proprio e a vinificare le uve di proprietà. Tra le piccole neonate realtà, alcune intuiscono le potenzialità di invecchiamento del Fiano, così dal 1997 in poi Guido Marsella e Villa Diamante iniziano ad attendere 12 mesi prima di commercializzare le bottiglie. Nel corso degli anni in tanti adottano lo stesso approccio, fino a che Guido Marsella decide ancora una volta di dare una scossa ed iniziare a vendere il proprio Fiano 24 mesi dopo la vendemmia.
Oggi la maggior parte delle aziende produce un Fiano giovane d’annata ed una versione “Riserva” (tra virgolette, perché la DOCG non prevede la versione Riserva).
Tornando alla degustazione, abbiamo degustato 8 Fiano di Avellino di 4 diversi territori, tutti vinificati in acciaio e di annate comprese tra la 2017 e la 2012. Un ringraziamento per le foto della serata ad Antonio Montano. Si parte.
Fiano Particella 928 2017 - Cantina del Barone
Il primo territorio incontrato nella degustazione è stato quello di Cesinali, quasi un “outsider” della denominazione, per molti anni dedito alla produzione di nocciole, più remunerative della vite. È stata la famiglia Sarno, soprattutto Luigi di Cantina del Barone ad accendere i riflettori su quest’area situata a 350-380 metri slm con suoli di argille calcaree, anche se la parte superficiale (fino a circa 70 cm) è composta da sabbie vulcaniche. Cantina del Barone lavora solo 2.5 ettari di fiano in agricoltura biologica certificata, per una produzione limitata a 15-16.000 bottiglie.
L’etichetta in questione proviene da 2.800 piante (mezz’ettaro, 3.000 bottiglie totali) dell’omonima particella catastale piantata in comune di Cesinali nel 2001.
Da una annata calda, dopo fermentazione con lieviti indigeni ed affinamento di 12 mesi prima dell’imbottigliamento, il vino esordisce con un naso inizialmente velato da una lieve riduzione che però, col passar dei minuti, inizia a farsi sempre più espansivo e generoso, con toni di ginestra, frutti gialli, mandorla e fieno. La bocca attacca larga, potente, sviluppandosi con polpa e cremosità; bella sapidità nel finale, con leggero ritorno affumicato.
Fiano di Avellino 2017 – Pietracupa
Fiano di Avellino 2015 – Pietracupa
Fiano di Avellino Aipierti 2015 – Vadiaperti Traerte
Il secondo territorio rappresenta di fatto un Grand Cru del Fiano: Montefredane, in particolare l’area di contrada Vadiaperti, nella parte più a nord al confine con la zona del Greco di Tufo. Siamo tra i 400 ed i 500 metri slm su suoli tendenzialmente argillosi con presenza di scisto e calcare, escursioni termiche estive accentuate che rendono più precoci le maturazioni ed acidità relativamente alte.
Tre i vini di quest’area. Interessante sia il confronto tra due annate della stessa azienda - Pietracupa - sia tra la stessa annata di due realtà importanti come Pietracupa e Vadiaperti, che pur avendo vigne confinanti mostrano sempre differenze significative. Per questo vengono considerati i gemelli diversi di Montefredane, per il loro stile quasi opposto, che vede comunque nella grande, immancabile sapidità dei vini un tratto comune e distintivo.
Pietracupa nasce nel 1990, ma le vigne furono acquistate da Peppino Loffredo nei primi anni ‘70 con la sola pretesa di fare il vino per sé e per gli amici. Con l’arrivo del figlio Sabino nel 1999 si inizia a fare sul serio ed oggi Pietracupa è tra i punti di riferimento del territorio, grazie a vini eleganti ed elettrizzanti.
La versione 2017 apre con un bel colore paglierino dai riflessi verdognoli; al naso è ancora contratto, ma sprigiona un carattere pietroso e gessoso, corroborato da note agrumate e di fiori bianchi. Nonostante l’annata calda la bocca è lunga e dinamica, arricchita da uno slancio acido-sapido da campione. Vino di eleganza viva e nordica, da risentire negli anni a venire per coglierne l’intera gamma di sfumature oggi ancora parzialmente nascoste.
Il Fiano 2015 di Sabino Loffredo invece, pur mostrando un filo conduttore con il 2017 (l’impatto minerale “bianco” e roccioso), offre aromi più aperti che uniscono frutto maturo e una componente di cenere in cui emergono anche note di nocciola/burro d’arachidi e lavanda, agrumi e pesca bianca. La bocca è piena, lo sviluppo profondo e reattivo, anche se forse nel finale manca il guizzo del fuoriclasse.
È la volta di Vadiaperti-Traerte, ovvero della storia di Montefredane, visto che l’azienda agricola è nata agli inizi del’900, anche se la cantina vera e propria ha iniziato ad operare e a vendere con il proprio marchio solo nel 1984, dopo un periodo di conferimento a Mastroberardino. La famiglia Troisi ha avuto in Antonio – detto il Professore – una figura lungimirante, la prima a ritenere le uve di questa zona degne di essere vinificate separatamente. Il figlio Raffaele è entrato in azienda nel 1993 per divenirne il titolare dal 1998, anno della scomparsa di Antonio. Nel 2011 entrano altri due soci che, insieme a Raffaele, danno vita a Traerte (che significa “tra strade di montagna”), aumentando gli ettari vitati ed il numero di bottiglie totali.
Il Fiano di Avellino Aipierti è di fatto il cru aziendale per il Fiano, prodotto in circa 2.500 bottiglie, che prende nome dal termine dialettale della contrada di origine e che viene prodotto solo con le uve della parte alta della vigna vecchia (1980). L’annata 2015, dopo fermentazione con lieviti indigeni e sosta sui lieviti per 12 mesi circa, si presenta di colore intenso ed appena introverso nei profumi, svelando lì per lì un profilo più cupo e austero rispetto al pari annata di Pietracupa; i profumi di grafite e polvere da sparo poi lasciano spazio a toni più maturi ed evoluti con sensazioni di cereali e frutta gialla. La bocca, ampia e di struttura, si mantiene incisiva grazie alla componente salina, più che all’acidità.
Fiano di Avellino 2014 – Colli di Lapio
Lapio è la prima zona produttiva del Fiano citata nella storia e quella che da tempo vanta la maggiore superficie vitata, al punto che al momento di istituire la DOC, nel 1978, per poco non prevalse l’opzione Fiano di Lapio, che in ultimo dovette cedere a Fiano di Avellino (scelta tutto sommata sensata, visto che la denominazione copre ben 26 comuni). Lapio si sviluppa nella parte nord/est della denominazione, zona di confine con il territorio del Taurasi. L’area vede nei versanti più alti (che arrivano a lambire i 600 metri slm), con le maggiori escursioni termiche e la ventilazione più marcata, i migliori risultati in termini di qualità. I suoli sono calcareo-argillosi e sul versante nord, quello più elevato, è presente anche uno spesso strato vulcanico (70-80 cm).
Qui nasce l’azienda Colli di Lapio. Dopo essere stata conferitrice per Mastroberardino, la cantina vera e propria prende via nel 1994 con Pasquale Romano. La figlia Clelia lo affianca già in quegli anni ed oggi è considerata “la Signora del Fiano”, coadiuvata a sua volta dai figli Carmela e Federico.
L’annata 2014 – prodotta in circa 50.000 bottiglie – proviene da tre contrade/cru di Lapio: Arianiello - il Grand Cru - Scarpone e Stazzone, in una zona intorno ai 550 metri slm.
Il lato aromatico, complesso ed elegante, regala nuances agrumate, di mela golden e pesca gialla avvolte da sottili note floreali, di erbe aromatiche e nocciola; lo scorrere dei minuti fa uscire un tocco di vaniglia. La bocca è precisa, compatta e salata, dando allo stesso tempo un’impressione di polpa voluminosa e freschezza, anche se nel finale spuntano caldi sbuffi alcolici.
credit: www.guidomarsella.com |
Brut Contadino – Ciro Picariello
Fiano di Avellino Ciro 908 2013 – Ciro Picariello
Fiano di Avellino 2012 – Guido Marsella
L’aerale di Summonte - alle falde del monte Partenio, nella parte ovest della denominazione - è venuto alla ribalta dopo la metà degli anni ‘90 grazie soprattutto a Guido Marsella prima e, dalla metà degli anni 2000, di Ciro Picariello poi. Fino ad allora la zona era considerata buona soprattutto per le nocciole e le castagne.
La viticoltura in questo comune occupa in buona parte la fascia attorno ai 600/650 metri slm. I suoli sono composti in prevalenza da calcari dolomitici; sono terreni poveri, poco profondi e che poggiano sulla roccia viva. Il clima è di tipo continentale con elevate escursioni termiche. Sono due le contrade ipoteticamente classificabili come Grand Cru: Campo di Maio e Marroni, dove peraltro sorgono le cantine di Marsella e Picariello.
I primi 4 ettari di Ciro Picariello risalgono al 1992 ed inizialmente le uve venivano conferite a Feudi di San Gregorio, mentre dal 2004 inizia la vinificazione in proprio. In mezzo, nel 2002, Picariello acquista terreni a Montefredane, località Castelloni, la zona più elevata del comune, e ad Altavilla.
Nel 2012 nasce “Ciro 906” (3.000 magnum dalle vigne di Summonte, prodotto solo nelle annate migliori ed in vendita dopo il terzo anno dalla vendemmia) che avrebbe dovuto chiamarsi “Summonte 906”, ma il disciplinare impedisce di indicare il nome del comune in etichetta, così Picariello aggiunge il suo nome a quello della particella catastale. Oggi gli ettari vitati aziendali sono ormai 12 ed insieme a Ciro lavorano la moglie Rita, ed i figli, Emma e Bruno.
Due i vini di Picariello degustati. Il primo, il Metodo Classico Brut Contadino, è stato servito come bicchiere di benvenuto ai presenti e viene prodotto con sole uve di Fiano dopo permanenza sui lieviti di circa 24 mesi. Piacevole nei toni agrumati, poi di frutti e fiori bianchi con leggere scie lievitose e sfumature fumè, mostra un palato appagante che attacca morbido, ma incede agile e scorrevole, dritto e sapido con finale di pompelmo.
Come penultimo vino della serata invece è stato servito il Fiano di Avellino Ciro 906 2013, ottenuto da una lunga fermentazione a freddo (12-13°C per 60 giorni circa), cui segue affinamento per un anno sulle fecce fini e di due anni in bottiglia. Bel colore paglierino luminoso con riflessi verdognoli; all’olfatto sfoggia subito una mineralità di selce e toni idrocarburici rieslingosi, ma l’ossigenazione svela sfumature più complesse che richiamano gli agrumi, i fiori bianchi, il frutto maturo con note leggermente balsamiche di erbe aromatiche e ancora la nocciola tostata. Il sorso è “nordico”: tonico e scattante, ma anche fine e composto, si sviluppa con eleganza fino ad un finale profondo e saporito.
Chiusura con il Fiano di Avellino 2012 di Guido Marsella, il primo produttore a credere nelle potenzialità di invecchiamento del Fiano e tra i primi a vinificarne le uve in un periodo - metà anni ‘90 - in cui nessuno scommetteva sulla zona. La prima annata prodotta è stata la 1997 e fin da subito si è fatto notare per una personalità che guardava al Riesling alsaziano: materica, talvolta opulenta, con quella netta e forte nota di cenere che è quasi diventata un marchio di fabbrica.
Il 2012, dopo fermentazione con lieviti selezionati, ha maturato 12 mesi sui lieviti fini in acciaio. Il colore è un paglierino intenso e luminoso; subito il naso è investito da una nota affumicata intensissima, con richiami torbati e ancor più di legna arsa e di portacenere usato. Con l’ossigenazione il forte timbro minerale tende ad attenuarsi, lasciando spazio a note di ginestra, di frutto maturo giallo e ancora di scorza d’agrumi e miele, terminando con rimandi di mandorla tostata. Un'espressione olfattiva senza compromessi del terroir di provenienza, magari non elegantissima ma comunque complessa e ricca di personalità. La bocca è ampia e potente, carnosa, tonica e di bella energia sapida (più che acida), con finale deciso.
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