giovedì 30 aprile 2020

VOLNAY CAILLERETS ANCIENNE CUVÉE CARNOT 2013 - BOUCHARD

La Maison Bouchard Père & Fils è uno dei négociant più importanti (e antichi) di Borgogna, all’attivo dal 1731 per merito di Michel Bouchard, un commerciante di tessuti che viaggiava attraverso la Borgogna per raggiungere i mercati dei paesi fiamminghi. La conoscenza che Michel fa del territorio borgognone lo porta ad abbandonare il commercio di tessuti a favore di quello vitivinicolo. Nel 1775 il figlio Joseph acquista le prime vigne a Volnay nei cru: Caillerets, Chanlins e Taillepieds ai quali, grazie alla florida attività esercitata negli anni seguenti alla rivoluzione francese, vengono aggiunte numerose vigne nella zona di Beaune, tra cui la prima parte della prestigiosa “Vigne de l’Enfant Jesus”, un leggendario clos di 3.92 ettari divenuto monopole di Bouchard nel 1889. 


Nel 1890 i possedimenti vengono ulteriormente incrementati grazie all’acquisizione dello Chateau de Beaune, fortezza militare fatta costruire dal re Luigi XI nel XV secolo, dove Bouchard trasferisce il proprio quartier generale. Tra il 1838 e i primi del ‘900 prosegue l’opera di espansione e il Domaine si accaparra diversi terreni nei Grand Cru più ambiti.
Nel 1995 la Maison di Champagne Henriot acquisisce il marchio Bouchard e con la vendemmia 2005 viene inaugurata a Savigny-lès-Beaune la nuova Cuverie Saint Vincent, dove il processo produttivo avviene per gravità e dove hanno luogo le vinificazioni (per un terzo da vigneti di proprietà, il resto proviene da fornitori di fiducia). Nei 130 ettari di proprietà, dai quali si ottengono circa 600.000 bottiglie all'anno, si trovano ben dodici Grand Cru e una cinquantina scarsa di Premier Cru. 

La foto della facciata e delle botti sono prese dalla pagina Facebook aziendale

Volnay Caillerets 1er Cru “Ancien Cuvèe Carnot” 2013 – Bouchard Pére et Fils 
Da un cru di 14.33 ettari che prende nome dall’aspetto del suolo (caillou=ciottolo, sasso). Nella classificazione stilata da Jules Lavalle (1855) il Caillerets viene indicato come tète de cuvèe, quindi uno dei climats in grado di sfornare tra i migliori vini della zona. I suoli sono molto ciottolosi, ma differiscono da una zona all’altra del vigneto a causa della ferrettizzazione di alcune aree e della diversa composizione delle marne, in tutti i casi però lo strato superficiale è sottile (30 cm.) e sotto si trova un blocco roccioso di epoca giurassica, fratturato e ben drenante. L’esposizione è a sud est a un’altitudine di 250-290 metri s.l.m. 


Punto di riferimento tra le vigne del comune, questo storico climat ha originato il detto che “chi non possiede una vigna al Cailleret, non sa cosa valga il Volnay”. Il primo vigneto ad essere acquistato dalla Maison Bouchard, nel 1775, è stata proprio una parcella di 3.76 ettari all'interno di questo cru e il cognome "Carnot" in etichetta è un omaggio ai proprietari di allora.
L’annata 2013 qui è stata abbastanza complicata (non è mancata la grandine) e ha dato Pinot Nero freschi e talvolta esili, spesso non particolarmente generosi sul fronte aromatico ma succosi e dissetanti. Un’annata classica, per certi versi, con estratti e densità minori rispetto alla media degli ultimi anni. 
Per questa etichetta l'azienda effettua una vendemmia manuale in cassette da 13 Kg e successiva parziale diraspatura seguita da una pigiatura soffice. Dopo la macerazione di circa due settimane il vino viene elevato per poco più di un anno in piccole botti di rovere francese (30-40% nuove). 


Il vino ha veste rosso rubino luminoso e trasparente, con naso cangiante impostato sul registro della finezza e corpo che non manca di una certa austerità. I profumi aprono su accattivanti aromi di frutti di bosco, cui fanno eco sia note di fiori appassiti che nuances iodate. L’ossigenazione mette in risalto toni speziati, ematici e di legno di cedro con rimandi balsamici che richiamano le erbe aromatiche. La bocca è quasi ossuta, di eleganza diretta e leggermente severa, molto gastronomica. I tannini sono vibranti e incisivi e supportano il finale, teso e nervoso con bell’allungo arricchito da rimandi di arancia rossa e da una penetrante sapidità.

lunedì 27 aprile 2020

BARBARESCO MORASSINO 2016 - CASCINA MORASSINO

La famiglia Bianco è un pezzo di storia di Barbaresco, tra le più antiche del comune, e produceva vino già intorno al 1870 grazie a Battista Bianco (classe 1813). 
I decenni hanno portato inevitabili successioni nell’assetto aziendale con pure, a un certo punto della storia, l’intreccio famigliare tra cognomi importanti in zona come Bianco, Rocca e De Forville, che ha portato alla fondazione dell’azienda Cascina Morassino nel 1984 per opera di Mauro Bianco.


Cascina Morassino, oggi gestita dal figlio di Mauro, Roberto Bianco, dispone di 4.5 ettari vitati coltivati per l'80% a nebbiolo, 3.5 dei quali si trovano sulle marne calcaree dell’Ovello, ampio cru (circa 20 ettari in tutto nei quali si trova la sottozona nota come Morassino) della parte nord di Barbaresco che prende nome dalla storica cascina Aloello ed è collocato a un’altitudine media di 250 metri. Qui Bianco possiede anche un piccolo appezzamento del 1967. Il contenuto di argilla più alto rispetto ad altre vigne del comune e l’influenza dei venti che arrivano da nord fanno sì che qui in gioventù i tannini possano risultare più ruvidi che altrove. 
Vi è poi un ettaro in comune di Neive, nella parte bassa della sottozona Cottà, vicino al confine con Barbaresco a 260-270 metri slm. 
I vigneti sono esposti sul versante sud-est a Barbaresco e sul versante ovest a Neive e ogni anno arrivano a produrre poco più di 20.000 bottiglie, metà delle quali di Barbaresco.

Immagine presa da www.enotecadelbarbaresco.com

Barbaresco Morassino 2016 – Cascina Morassino 
Fermentazione a temperatura controllata e affinamento in botti grandi (25 Hl) per 18 mesi a partire da uve provenienti dalla sottozona Morassino dell’Ovello. Prodotte 5.500 bottiglie. 
Classico colore nebbiolesco che anticipa un naso floreale (viola), di confettura di fragola, sottobosco, tabacco con scie speziato-balsamiche e di vaniglia.
Al palato attacca vellutato e avvolgente per svilupparsi ampio e grintoso grazie a un lato voluminoso e potente contrastato da un carattere acido-sapido efficace e mordente. Finale lungo e profondo ancora leggermente asciugante, in cui tornano i toni balsamici. 
Già buono e gustoso adesso, bisognerà aspettare un anno o due perché entri nella finestra espressiva ideale.

giovedì 23 aprile 2020

SHEILA PAS DOSÉ 2006 – PODERE PAVOLINI

Torniamo nei colli piacentini, ma stavolta ci spostiamo nella estremità orientale della Val d’Arda, ai Paolini di Bacedasco Alto (comune di Vernasca), zona con suoli di origine pliocenica ricchi di fossili, costituiti da marne e argille sabbiose grigio-azzurre. Il regno del Piacenziano, insomma, anche se con intrusioni geologiche che ci ricordano quanto siano variabili, anche nell’arco di pochi metri, i suoli di questa provincia. 
Podere Pavolini è un’azienda storica di proprietà della famiglia Terzoni, oggi condotta da Graziano Terzoni che ormai da anni è succeduto al papà Luigi. I vigneti si estendono su una superficie collinare di cinque ettari con pendenze talvolta importanti e altitudini comprese tra 200 e 250 metri slm. Le vigne da alcuni anni sono condotte in regime Biologico certificato e principalmente vedono la presenza delle varietà malvasia, ortrugo e croatina. 


Da queste parti fino agli anni ’60-’70 del secolo scorso quasi tutto il vino era frizzante a rifermentazione in bottiglia, col fondo, e a un certo punto Graziano, da sempre con la passione per lo Champagne, prova a fare un piccolo-grande salto concettuale: continuare a produrre bollicine rifermentate in bottiglia a partire da uve locali, ma con il Metodo Classico. Dopo tante vendemmie e ancor più sperimentazioni, il 2006 è l’anno della svolta, quello in cui inizia a convogliare la maggior parte delle proprie energie nella produzione di questa tipologia, che lui vuole elegante e beverina come una bibita. Oggi Podere Pavolini produce circa 30.000 bottiglie all’anno, due terzi delle quali di Metodo Classico. 

Foto presa dal sito internet aziendale

Sheila Pas Dosè 2006 – Podere Pavolini 
Una bottiglia sorprendente, frutto di un mix tra ortrugo (90%) e marsanne (10%), una varietà, quest’ultima, che qui viene tradizionalmente chiamata “champagne” o “champagnino”. 
Uva raccolta a uno stadio di maturazione leggermente anticipato (circa 12 % potenziale alcol), pressatura a grappolo intero per mantenere basso il pH. Tiraggio nella primavera successiva alla vendemmia svolta con tre barriques dello stesso mosto filtrato (così da non innalzare la percentuale alcolica). 
Della produzione iniziale di 5.000 bottiglie, buona parte è stata commercializzata a partire dal 2009 e presto esaurita, ma 360 bottiglie sono state conservate sui lieviti fino a novembre 2019, data della nuova sboccatura di cui vi stiamo parlando. 


Dopo circa 150 mesi sui lieviti il vino si presenta con un colore paglierino vivo e brillante e un perlage dalla grana molto fine, lenta e persistente. 
Chi si aspetta l’avvolgenza burrosa o la dolcezza del frutto e del pan brioche potrebbe non apprezzare, ma i profumi (cangianti e complessi) spaziano dai toni leggermente balsamici delle erbe aromatiche essiccate (che richiamano sensazioni quasi da Vermouth) a note di agrumi canditi arricchite da rimandi iodati e fumè e da toni di miele e nocciola tostata. 
La bocca ha un ingresso compatto e si sviluppa pimpante e sottile, molto dinamica, ravvivata da un’acidità viva ma non aspra, anzi, setosa. Il finale ha sprint e armonia, chiude con bella scioltezza agrumata confermando una sensazione generale di appagante bevibilità.

lunedì 20 aprile 2020

ETNA ROSSO DON MICHELE 2016 - TENUTA MOGANAZZI

Tenuta Moganazzi è un piccolo podere situato sul versante nord est del’Etna in frazione Passopisciaro, nel comune di Castiglione di Sicilia. Ricade per la maggior parte in C.da Moganazzi (8 ettari) e in piccola parte in C.da Rampante (2,5 ettari). 
Tutto ha inizio nel 1950 quando Michele Pennisi, cardiologo, inizia a dedicarsi alle vigne nel tempo libero. Michele all’epoca non produce vino, si limita alla vendita delle uve, ma dal 1994 viene affiancato dal fedele fattore, Vito, con cui inizia a produrre poche bottiglie quasi per gioco. Nel 2006 Michele viene a mancare e il figlio Vincenzo - geologo - ne raccoglie il testimone, iniziando un nuovo percorso produttivo e commerciale. Il nome dei vini - Don Michele – è dunque un chiaro omaggio al padre, che per tanto tempo ha amorevolmente custodito quelle vigne. 
Nel 2012, però, Vincenzo scompare prematuramente e oggi sono i suoi due fratelli Giusy e Giuseppe (biologa l’una, medico l’altro), con le rispettive famiglie, a tenere viva questa storia di passione famigliare. 

Le due foto dei vigneti sono state fornite dall'azienda

Il clima dell’area è unico. Le elevate altitudini regalano importanti escursioni termiche tra giorno e notte in un contesto di bassa piovosità. I vigneti della Tenuta, situati a 650 metri di quota e coltivati in conduzione Biologica certificata, vengono allevati con il sistema ad alberello etneo e hanno un’età media di circa 70 anni, con la presenza di ceppi centenari. Le vigne affondano le radici in suoli vulcanici, basaltici, ricchi di silice e minerali. Le varietà sono quelle tipiche della zona: nerello mascalese, nerello cappuccio, carricante e catarratto, da cui vengono prodotte tre etichette: il Don Michele Bianco, il Don Michele Rosato e il Don Michele Rosso, per una produzione annua di poche migliaia di bottiglie totali, perché buona parte delle uve viene ancora venduta. 


Etna Rosso Don Michele 2016 – Tenuta Moganazzi 
Ottima annata sull’Etna, il 2016, equilibrata, ma che nei vini ha comunque accentuato il lato fresco, grazie ad acidità superiori alla media e a concentrazioni alcoliche inferiori. 
Come da tradizione etnea questa etichetta è un blend di nerello mascalese (90%) e nerello cappuccio (10%). Dopo la vendemmia manuale le uve vengono pigia-diraspate e il mosto è trasferito in vasche di acciaio inox per la fermentazione a temperatura controllata e successiva macerazione sulle bucce di circa 15 giorni. Il vino viene poi travasato in barriques esauste di rovere francese per un affinamento di circa 8 mesi. Segue imbottigliamento e ulteriore affinamento di alcuni mesi in vetro. 


Bel colore rubino luminoso dai lievi riflessi aranciati. Il naso è giocato principalmente su fragranze fruttate di ciliegia, lamponi e ribes nero, cui fanno seguito toni floreali di geranio e richiami balsamici di erbe aromatiche. L'olfatto si apre poi su toni speziati quasi pungenti di pepe bianco, con sottofondo di vaniglia e di grafite. 
Il sorso attacca affusolato, ma si sviluppa teso e nervoso con un tannino graffiante e una piacevole sapidità che danno soddisfazione a tavola. Il finale, asciutto e agrumato, offre ritorni retro-olfattivi tra il frutto e una sensazione lievemente boisè.

sabato 18 aprile 2020

KASELER NIES'CHEN KABINETT 2017 (VINO D'ASTA) - VON BEULWITZ

Oggi vi parliamo di un’azienda poco nota con sede a Mertesdorf, il comune più vitato della Ruwer (sottozona della Mosella, Germania), nata nel 1867 e gestita dalla famiglia Weis dal 1982: Erben von Beulwitz.
Dunque, la Ruwer. Tra i due affluenti della Mosella (l’altro si chiama Saar e origina l’omonima vallata) è il più corto con soli 46 km di lunghezza e quello racchiuso nella vallata più stretta e meno soleggiata. Territorio segnato da un clima rigido che in passato poteva complicare il raggiungimento della maturazione adeguata delle uve. Eppure i vini pur avendo un'acidità sferzante simile a quelli della Saar, rispetto a quest'ultima zona spesso mostrano un'espressività di frutto più rotonda e intensa. 


Von Beulwitz lavora 7.5 ettari complessivi (90% riesling), per quasi 50.000 bottiglie prodotte in totale, compresi 2.5 ettari nel prestigioso Kaseler Nies’chen, “Grand Cru” esposto a sud-sud ovest su suoli di ardesia blu e marrone e pendenze che si spingono fino al 60%. Le vigne sono in parte centenarie. 
L’azienda fa parte della storica associazione Bernkasteler Ring, che ogni anno in settembre organizza un’asta con le selezioni più rare dei soci. Proprio dall’asta di settembre 2018 proviene questa etichetta prodotta in soli 300 esemplari.

Foto del Kaseler Nies'chen e del grappolo di riesling prese dal sito internet aziendale

Kaseler Nies'chen Riesling Kabinett Fass Nr. 11 2017 (vino d'asta) - Erben Von Beulwitz 
(NB: fass significa botte, fass Nr. 11 indica il numero di botte, che in questo caso è stata destinata a una selezione d’asta) 
Il naso è ampio e alterna la generosità della pesca bianca, degli agrumi maturi e dei frutti tropicali con la freschezza delle erbe aromatiche e della mela verde, spingendosi verso un tocco minerale gessoso, ma dà l’impressione di doversi ancora aprire del tutto. 
Il palato esibisce volumetrie da spätlese, più che da kabinett. Avvolgente con persino una punta di grassezza nell’attacco di bocca, incede sicuro con tonicità, in un piacevole contrasto continuo tra carattere dolce-cremoso da un lato e sapido-acido dall’altro. Il finale è teso e molto lungo, anche se i quasi 80 gr/l di zuccheri residui avranno bisogno di tempo per fondersi ancora meglio. 
Oggi è gradevole e seducente, ma tra almeno quattro-cinque anni inizierà a sviluppare le grandi potenzialità olfattive e gustative che ora si intravedono soltanto. Bottiglia più importante di quello che il prädikat lascia intendere.

mercoledì 15 aprile 2020

GRANDE CUVÉE BRUT- VEUVE BLANCHE ESTELLE (ENCRY)

Encry è un'anomalia: un produttore di Champagne di proprietà italiana. 
Enrico Baldin e Nadia Nicoli, dopo un iter accidentato, sono riusciti a creare di fatto una nuova azienda con tre ettari di vigna in uno dei comuni Grand Cru più importanti della regione, Le Mesnil-sur-Oger in Côte de Blancs. Tutto inizia nei primi anni 2000 quando Enrico, esperto di ingegneria naturalistica e ripristino ambientale, per lavoro si sposta in Champagne dove conosce Jean Michel Turgy, vigneron di Le Mesnil-sur-Oger. Jean Michel discende da una famiglia di storici produttori di vin clair (i vini base destinati alla rifermentazione), da sempre venduti a Maison blasonate della zona.
I due diventano amici e iniziano a collaborare per la parte commerciale. Con il passare del tempo il rapporto si solidifica, Enrico e Nadia arrivano persino ad investire nel progetto di costituzione di una nuova azienda dal nome ENCRY (dal soprannome di Enrico, “Enry”, cui viene aggiunta la “c” di Champagne), forte del parco vitato di Jean Michel. 


Tutto sembra filare liscio, ma il CIVC (Comité Interprofessionnel du Vin de Champagne) si mette di traverso non vedendo di buon occhio che investitori esteri sfruttino il grande marchio territoriale, quindi richiede che alla base di tutto ci sia una Maison vera e propria come forma di garanzia, cosa che apparentemente non c’è. Ma, colpo di scena, salta fuori che nel 1917 un parente di Jean Michel aveva registrato presso il CIVC, con la speranza di vendere vino all’estero, il marchio Blanche Estelle. A questo punto, recuperata in qualche modo la storicità della Maison, le cose si semplificano e permettono a Nadia di acquisire la titolarità del marchio Veuve Blanche Estelle, per gli “amici” Encry. 

Foto presa dalla pagina Facebook aziendale

Oggi vengono prodotte circa 40.000 bottiglie suddivise in quattro etichette: Grand Cuvée, Zéro Dosage, Gran Rosé e Millésime.
Le vigne si sviluppano sulla sommità del comprensorio a ovest di Le Mesnil, posizione privilegiata che preserva le piante da eventuali – e non rare – gelate primaverili e dallo sviluppo di muffe. Banditi i pesticidi, si fa uso dei soli zolfo e rame in un tipo di coltivazione vicina alla filosofia Biodinamica. La densità media nei filari inerbiti è di 10.000 ceppi/ettaro piantati su suoli calcareo-gessosi ricchi di fossili marini.

Blanc de Blanc Grand Cru Grand Cuvèe Brut - Veuve Blanche Estelle Encry 
Chardonnay in purezza prodotto in circa 24.000 esemplari da una selezione di parcelle in vecchi vigneti Grand Cru di Le Mesnil-sur-Oger. Prima fermentazione in acciaio inox a temperatura controllata, malolattica svolta e affinamento sui lieviti per 36 mesi con remuage manuale e dègorgement à la voleè.


Champagne con dosaggio più da extra-brut (5,5 gr/l) che da brut e che contiene un 20% di vini di riserva. Si presenta con un paglierino brillante luminosissimo e una grana delle bollicine di grande finezza, con perlage lento e molto persistente. Il naso si esprime su un registro fragrante e preciso, dai toni delicatamente floreali e fruttati cui fanno seguito note di lime, nocciola e pan brioche per lasciare spazio a cenni iodati e a una mineralità gessosa. Il sorso, di gran beva, è compatto, cremoso ed elegante, un rincorrersi tra intensità e finezza, tra una morbidezza leggermente burrosa e la vivacità dell’agrume, ravvivato da una decisa verve sapida e da una progressione di grande purezza espressiva.

martedì 14 aprile 2020

GRAN CUVÈE XXI SECOLO 2012 - D’ARAPRÌ

Quando nel 1979 Girolamo D’Amico, Louis Rapini e Ulrico Priore (tre amici accomunati dalla passione per il vino e per il jazz) hanno deciso di fondare d’Araprì e produrre solo Metodo Classico a San Severo (Foggia) con i vitigni tradizionali bombino bianco e bombino nero, probabilmente non sono stati pochi quelli che li hanno presi per matti. 
Eppure la scommessa è stata ampiamente vinta e da parecchi anni ormai i tre (recentemente affiancati dai rispettivi figli) non sono più solo i paladini del Metodo Classico in Puglia, ma tra i principali interpreti del Metodo Classico da vitigni autoctoni. 


La prima vendemmia ufficiale è stata la 1985 e negli anni ‘90 la superficie vitata di d’Araprì (a proposito, il nome deriva dalle iniziali dei loro tre cognomi) si è ampliata alle varietà montepulciano e pinot nero. Oggi le vigne coprono ventidue ettari nella zona di San Severo, a pochi chilometri dal Gargano e dal Mare Adriatico, e permettono di produrre ogni anno circa 100.000 bottiglie che vengono conservate nelle cantine collocate in una serie di tunnel sotterranei sotto il centro storico del paese. 
La maggior parte dei vigneti è a pergola pugliese (sistema che ombreggia parzialmente i grappoli impendendone le scottature da sole) in un’area ventosa e poco piovosa che presenta suoli calcareo argillosi di medio impasto. 

Le foto della vigna e del grappolo di bombino sono prese dal sito internet aziendale

Gran Cuvée XXI Secolo brut 2012 – d’Araprì 
Prodotta solo nelle migliori annate, la Gran Cuvée XXI Secolo proviene da un mix di bombino bianco, pinot nero e montepulciano delle Contrade San Biase, Cotinone e San Matteo, esposte a sud – sud ovest a 80-100 metri slm. 
Le diverse varietà sono state raccolte separatamente (fine agosto pinot nero, meta settembre bombino bianco e fine settembre-inizio ottobre Montepulciano) e, dopo vinificazione in acciaio e assemblaggio nella primavera successiva alla vendemmia, ciascuna delle 7.000 bottiglie prodotte ha riposato sui lieviti a una temperatura di 13° C per andare incontro alla sboccatura nel 2019 dopo oltre 60 mesi di affinamento. 


Bel colore giallo luminoso con riflessi dorati, al naso esprime potenza e una certa larghezza di toni che, tuttavia, sono di elegante evoluzione e non cadono nella stucchevolezza. Si spazia dunque dal pan brioche all’albicocca, dal tabacco agli agrumi maturi, con toni netti di confettura di mela e pera e una sottile vena di erbe aromatiche a rinfrescare il tutto. 
Come anticipato dal lato aromatico, il palato esibisce ampiezza e una struttura cremosa, ma con un’acidità salata che lo percorre dall’inizio alla fine e garantisce una chiusura piacevolmente asciutta e decisa. 
Complesso e appagante.

sabato 11 aprile 2020

GROTTA DELL'ORO 2018 - HIBISCUS

Oggi si va a Ustica, piccola isola a nord di Palermo dove la viticoltura in passato ha rivestito un ruolo importante, ma che ora purtroppo è ridotta a rade macchie vitate sparse sul territorio. 
Dei 230 ettari di vigna presenti sull’isola a fine ‘800 ne sono rimasti ben pochi e Hibiscus oggi è l’unica azienda a imbottigliare. Dai tre ettari vitati con certificazione Bio produce ogni anno circa 13.000 bottiglie ottenute prevalentemente da vitigni locali da cui si ricavano tre vini bianchi (tra cui lo Zibibbo secco di cui vi parliamo oggi), un rosso, un rosato e un passito di Zibibbo. 


Di proprietà della famiglia Longo da tre generazioni, è stato Nicola – forte di una laurea in Agraria - a dare il via alla modernizzazione aziendale (negli anni ’90 è stata introdotta la fermentazione a temperatura controllata). Nel 2010 la gestione è passata alla figlia Margherita e al suo compagno Vito Barbera che, tornati sull’isola dopo anni a Palermo, hanno acquistato un impianto di refrigerazione e una pressa a polmone costruita su misura a Marsala. 
Nei dieci ettari complessivi siti in varie contrade dell’isola Hibiscus, oltre al vino, produce la lenticchia di Ustica (Presidio Slow Food) e possiede un’appendice sulle colline tra Erice e Valderice (Trapani) dove coltiva un piccolo uliveto. 
Le vigne, inserite in un contesto paesaggistico di grande fascino e costantemente battute dal vento, poggiano su suoli vulcanici a 20-30 metri slm, a pochi passi dal mare. Gli storici alberelli sono ormai stati sostituiti da più gestibili spalliere (Guyot e cordone speronato) 

Foto dei vigneti prese dalla pagina Facebook aziendale

GROTTA DELL’ORO 2018 - Hibiscus 
Grappoli di Zibibbo provenienti da vari appezzamenti tra Contrada Spalmatore e Contrada Tramontana (7.000 mq in tutto suddivisi in piccoli appezzamenti di 1.500 mq circa), con esposizione Nord e Sud Ovest e suoli di origine vulcanica. Produzione media di 2.500 bottiglie. 
La vinificazione avviene in acciaio tra i 15° e i 18° C e prevede un affinamento di quattro mesi in acciaio più un paio di mesi in bottiglia prima dell’immissione al consumo. 
Esordio olfattivo nitido con intense note di mandarino, fiori di sambuco, zagara e rosa completate da scie di salvia e pesca, più tratti salmastri che affiorano in sottofondo. 
La bocca è nervosa, spedita e salata. Un vino diretto e succoso dotato di piacevole slancio beverino.

mercoledì 8 aprile 2020

TERLANER NOVA DOMUS 2001 - CANTINA DI TERLANO

Terlano è un piccolo comune della provincia di Bolzano posto sulla sinistra orografica dell’Adige, lungo la direttrice che da Bolzano porta a Merano. La Cantina Sociale di Terlano nel tempo è diventata un punto di riferimento per la zona e per tutte le cantine sociali altoatesine, anzi, un punto di riferimento tout court per tutte le cantine sociali. 
Fondata nel 1893 da 24 viticoltori ha avuto varie sedi prima di giungere a quella attuale, progettata prima della prima Guerra Mondiale, ma costruita solo nel 1926.


Alla crisi degli anni ’30 sono seguiti i successi degli anni ’50 e la conduzione tecnica - dal 1955 al 1993 - del mitico e compianto Sebastian Stocker. Nel 2008 vi è stata la fusione con l’altrettanto storica cantina sociale di Andriano ed oggi i soci hanno raggiunto il numero di 145 unità operanti su una superficie vitata di circa 170 ettari. 
La zona di Terlano - che poggia su suoli di porfido rosso, pietrosi e sassosi, e vanta un microclima relativamente caldo ma con importanti escursioni termiche tra giorno e notte - si è sempre distinta per la produzione di vini bianchi da medio e lungo invecchiamento (fama dovuta in particolare al lavoro del kellermeister Sebastian Stocker) e col tempo ha consolidato questo aspetto, tant’è vero che oggi la sottozona Doc Terlano o Terlaner fa parte della più ampia Doc Alto Adige e prevede con questa dicitura la produzione di vini bianchi in cui il pinot bianco, lo chardonnay e il sauvignon la fanno da padrone. La Cantina Terlano oggi produce il 70% di vini bianchi e solo il 30% di vini rossi.


Terlaner Riserva Nova Domus 2001 – Cantina Terlano 
Il nome “Nova Domus” deriva dai ruderi del castello Casanova che sovrasta l’abitato di Terlano almeno dai primi del ‘200. Il vino è un blend di pinot bianco (60%), chardonnay (30%) e sauvignon (10%). Circa 25.000 bottiglie prodotte nella calda e piovosa annata 2001. 
Tutti i vigneti coinvolti provengono dalla zona classica che si sviluppa proprio sopra all’abitato di Terlano e si trovano ad altitudini differenti. Le esposizioni sono a sud e sud ovest, con le vigne di pinot bianco poste tra 500 e 600 metri slm, mentre quelle di chardonnay e sauvignon sono tra i 300 e i 350 metri.


Ogni vitigno viene vinificato a parte: alla vendemmia svolta manualmente segue la pigiatura a grappolo intero e la sfecciatura per sedimentazione naturale. Fermentazione alcolica in botti grandi da 30 hl con lieviti selezionati e a temperatura controllata, mentre la fermentazione malolattica è solo parziale per il pinot bianco e lo chardonnay. Segue affinamento per dodici mesi sulle fecce fini in botte grande. L’ultima operazione è l’assemblaggio delle tre varietà tre mesi prima di imbottigliare. 
A quasi vent'anni dalla vendemmia il vino esordisce con un bel colore dorato luminoso. Il naso è sfaccettato e di complessa integrità evolutiva, con toni di confettura di susine gialle e buccia di agrumi che si fondono con note di fieno per lasciare spazio a elementi iodati e affumicati. 
Il palato è potente e appena scaldato dall’alcol, con sviluppo cremoso e felpato, ma innervato da una prepotente – e molto gustosa – percezione di burro salato. Il finale profondo regala sensazioni di caramello e pungenze di zenzero candito. 
Bottiglia molto piacevole che crediamo sia arrivata al suo picco espressivo.

NB le foto delle botti e del paesaggio sono prese dalla pagina Facebook della Cantina di Terlano

sabato 4 aprile 2020

COLLI PIACENTINI MALVASIA 2001 - GAETANO SOLENGHI


Intorno alla metà degli anni ’80, dopo aver ereditato un piccolo appezzamento in località Battibò (Borgonovo Val Tidone, Colli Piacentini), Gaetano Solenghi decide di immergersi nell’avventura di produttore. Non ha esperienza nel settore, ma aiutato da amici vignaioli e da un anziano del luogo che, prima di lui, ha camminato quei filari apprende le prime nozioni necessarie per partire. Sin da subito Gaetano procede “in direzione ostinata e contraria” perché l’intento non è quello di produrre vini di pronta beva e frizzanti, come da tradizione della zona, ma di cimentarsi con vini capaci di esprimersi nel medio/lungo periodo, cosa che, prima di lui, quasi nessuno aveva avuto il coraggio di affrontare nei colli piacentini. Una sfida che Gaetano avvia con grande tenacia, la stessa attitudine trasmessa al figlio Nicola che ora lo affianca ed ha ormai in mano le redini dell’azienda.


Gaetano, oltre a produrre nella prima metà degli anni ‘90 le prime versioni di Barbera ed in seguito di Gutturnio, tra il 1999 e il 2002 ha sfornato alcune versioni di Malvasia ferma secca caratteriali e longeve. Purtroppo la produzione è stata poi sospesa a favore della pur eccellente Malvasia passita (il mercato a quell’epoca la recepiva meglio), ma dal 2016 Nicola ha rimesso al centro del progetto aziendale la Malvasia ferma con un piccolo impianto di 800 piante, consapevole delle potenzialità di cui questo tuttora misconosciuto vitigno è dotato.


Di soli 2.5 ettari circa, la proprietà della famiglia Solenghi si estende in località Battibò tra 170 e 200 metri di altitudine con esposizione sud-sud est ed è divisa in otto diverse parcelle, da impianti del 1969, 1986 e 1992. 
I suoli – ricchi di potassio e calcarei - sono tendenzialmente composti da marne argillose e mostrano tessiture piuttosto variabili, passando da piccole aree molto sabbiose ad altre più argillose, comunque con prevalenza argilloso-limosa. Una combinazione unica di suoli e clima molto adatta alla barbera, alla croatina e alla malvasia.


Colli Piacentini Malvasia 2001 - Gaetano Solenghi
Raccolta manuale dei grappoli nella parte di vigna che a quell’epoca aveva circa dieci anni; pressatura soffice con i raspi in un torchio verticale e decantazione statica di una notte. Travaso in tonneau nuovo di rovere di Allier da 300 litri dove è avvenuta la fermentazione alcolica per mezzo di lieviti indigeni. A fine fermentazione il vino è stato travasato e rimesso in legno sulle proprie fecce fini dove è rimasto fino a giugno del 2002, quando sono state imbottigliate 1.200 bottiglie senza alcuna filtrazione.


Una bottiglia colta nella sua fase di apice espressivo che offre un colore paglierino intenso con riflessi oro. Il naso mostra un’aromaticità ricca e finemente evoluta, con profumi che evocano sfumature di agrumi canditi, albicocca disidratata, tè alla pesca, radice di liquirizia e spezie, tutto avvolto da sensazioni balsamiche e burrose. Il sorso ha volume e cremosità, ma ben supportato da una spina dorsale acido-sapida viva e tonica chiusa da un finale persistente, ancora agrumato e molto salato.

venerdì 3 aprile 2020

DELLCHEN RIESLING 2016 - DÖNNHOFF

Dönnhoff è l’azienda più nota della Nahe, quella che ha trasformato la regione (posta un centinaio di km a est dalla Mosella Centrale, tra i fiumi Mosella e Reno) da Cenerentola in una tra le zone più intriganti e apprezzate della Germania viticola. Il principale artefice di ciò è stato Helmut Dönnhoff che, seppur ancora presente in azienda, da anni ha ufficialmente ceduto la gestione al figlio Cornelius. 
Nome viticolo storico, quello della famiglia Dönnhoff (compare infatti già nel 1761), anche se è stato il nonno di Helmut, Hermann, a puntare sul riesling e a imbottigliare per primo i Cru aziendali negli anni ’20 del ‘900.


Helmut è stato alla guida tecnica dal 1971 al 2007, cedendo poi le redini al figlio, in azienda comunque dal 1999. Oggi la realtà viticola consta di una trentina scarsa di ettari (80% riesling) con vigne di 15-65 anni da cui si ottengono vini dolci e trocken di altissimo livello qualitativo. 
I Riesling trocken di punta, da anni nel gotha dei grandi bianchi europei, al pieno delle proprie possibilità esibiscono aromaticità intense e talvolta esplosive ma sempre di profonda complessità, animate da strutture potenti, ma armoniche ed eleganti, percorse da un’impeccabile tensione sapido-acida. 

Immagini del Dellchen, credit: www.vdp.de

Il vino di oggi proviene dal Dellchen (comune di Norheim), piccolo "Grand Cru" di soli 3.2 ettari affacciato sul fiume Nahe tra Norheim e Niederhausen, esposto a sud con tratti molto ripidi (fino al 70% di pendenza) parzialmente terrazzati con muretti a secco e incastonato tra spuntoni di roccia che contribuiscono a creare un microclima unico. Collocato tra 140 e 200 metri slm, poggia su una base di ardesia grigia con importante presenza vulcanica (porfido) ed è stato a lungo negletto per le sue pendenze estreme che ne rendevano troppo complicata la gestione. Il nome deriva da alcune cavità nella roccia, dette “dellchen” in dialetto.


Dellchen Riesling 2016 - Dönnhoff
Frutto di una bella vendemmia in termini qualitativi, anche se di complicata gestione primaverile-estiva a causa dell'elevata pressione fito-sanitaria. Le ultimissime settimane prima della raccolta sono state perfette grazie al clima autunnale diurno mite, ma con buone escursioni termiche notturne. 
Fermentazione parte in acciaio, parte in botti grandi. Affinamento in botti grandi.
Il naso parte con buona espressività agrumata (pompelmo e lime) e di frutta tropicale (ananas), oltre a toni di pesca, rosa, erbe aromatiche quasi balsamiche e pepe bianco, ma mostra anche un importante cuore minerale di pietra focaia che permea l'intero spettro olfattivo insieme a un lieve fondo idrocarburico.
In bocca si rivela profondo e vigoroso, molto saporito e fresco. Teso, strutturato e succoso, ha un finale lungo e rinfrescante che lo rende addirittura quasi beverino.
Setoso e vibrante al tempo stesso, il palato ha un'articolazione di elegante austerità.
Un vino già godibilissimo, ma che probabilmente avrà bisogno ancora di almeno un anno per entrare nella "finestra" espressiva ideale.

mercoledì 1 aprile 2020

AGLIANICO DEL VULTURE PIAN DEL MORO 2012 - MUSTO CARMELITANO

Musto Carmelitano è una giovane realtà della Basilicata con sede a Maschito, in provincia di Potenza, fondata nel 2005 dai fratelli Elisabetta e Luigi Musto Carmelitano. La prima vendemmia ufficiale (dopo gli esperimenti del 2006, venduti sfusi) risale al 2007. 
La loro famiglia ha sempre lavorato la campagna e la vigna (da tre generazioni), ma è per merito dei due giovani se i vini hanno fatto un salto di qualità. 


L’azienda conta oggi su 4.5 ettari vitati per una produzione media di circa 25.000 bottiglie annue che si distribuiscono tra cinque etichette di Aglianico e due bianchi da uve Moscato. La conduzione è fedele a un concetto di agricoltura sostenibile e rispettosa del territorio, con un approccio artigianale e “naturale” anche in cantina (fermentazioni spontanee, poca o niente solforosa, nessuna chiarifica, né stabilizzazioni se non quelle dettate dal tempo trascorso in cantina). 

Dal sito internet aziendale

I fratelli possono contare sul prezioso contributo in vigna del padre Francesco che li aiuta a gestire le tre parcelle vitate situate nell’areale di Maschito, a un’altitudine di circa 600 metri s.l.m.: Pian del Moro, Serra del Prete e Varnavà. I vini sono freschi, puliti, con tanto carattere e senza eccessive estrazioni o surmaturazioni. 
Elisabetta e Luigi fanno parte della nuova “generazione Vulture”, un gruppo di giovani produttori (Basilisco, Bisceglia, Carbone Vini, Elena Fucci, Grifalco, Madonna delle Grazie, Martino) che si sono uniti con l’intento di promuovere e valorizzare il territorio del Vulture e il vitigno Aglianico. 


Aglianico del Vulture Pian del Moro 2012 – Musto Carmelitano 
Le uve provengono da una parcella di quasi un ettaro, la più vecchia dell’azienda, piantata dal nonno di Elisabetta e Luigi, sita in località Pian del Moro su suoli vulcanici molto sabbiosi con zone calcaree, tipici del maschitano. La parte bassa del vigneto include alcune piante ad alberello centenarie su piede franco, mentre quella più alta raggiunge i 70 anni di età. Le vigne sono state rigenerate con l’antica tecnica della propaggine, per mantenere lo storico e prezioso materiale genetico. 
In cantina fermentazione con lieviti indigeni in acciaio a temperatura controllata e macerazione di 6-7 giorni. Il vino affina dodici mesi in acciaio per poi essere travasato in tonneaux da 5 e 10 Hl dove resta per poco più di un anno. Segue affinamento di un anno in bottiglia prima della commercializzazione. Solo 2.600 le bottiglie prodotte. 


La veste del vino è di colore rubino intenso e luminoso. Il naso è complesso, ampio: esordisce su toni leggermente animali per aprirsi a sensazioni di mora, mirtillo e lampone cui fanno seguito toni di fiori appassiti e note speziate (chiodi di garofano) fuse con nuances affumicate e balsamiche; le sensazioni olfattive chiudono su un registro terziario tra il cacao, il cuoio e la liquirizia. 
La bocca è austera e appena rustica, ha materia, potenza e mette in mostra una vigorosa fibra tannica. Il sorso è dinamico e nervoso, sostenuto da un’acidità ancora vibrante con un finale lievemente amarognolo. 
Un vino che esprime appieno il terroir del Vulture e che darà il meglio di sé ancora per diversi anni.